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“David LaChapelle. I Believe in Miracles”. La fotografia spinta oltre i suoi limiti

Al Mudec di Milano si è da poco conclusa la mostra fotografica “David LaChapelle. I Believe in Miracles”, prodotta dal Gruppo 24 ore e curata da Denis Curti e Reiner Opoku. Definita dagli stessi curatori come “sintesi visiva” delle riflessioni concepite dall’autore durante il corso della sua carriera, la mostra ha messo in luce i temi a lui più cari dagli anni Ottanta a oggi.

David LaChapelle. Artista visionario che, con il suo sapiente uso del colore e la compenetrazione di tecniche diverse, ha rimesso in discussione i canoni e i metodi della fotografia internazionale. La sua convinzione? “Credo nella comunicazione attraverso l’immagine”. Il suo obiettivo? “Raggiungere le persone attraverso un’opera d’arte, senza nemmeno incontrarle”. Dunque, nell’intento dell’artista, l’arte è comunicazione all’umanità. 

Nella foto, in alto: David LaChapelle, Orange Heliconia n. 1 (2019-2020)

Ma comunicazione di cosa? Delle proprie riflessioni, su ciò che è più urgente è ancestrale al tempo stesso. Così racconta lo stesso LaChapelle: “Dove va a finire l’anima? Con questa idea in mente lavoravo nella camera oscura, dipingevo a mano i negativi di immagini figurative che mettevo in scena, usando amici, amanti, ballerini e quelli che mi stavano vicino per raffigurare angeli, santi, martiri e miracoli in un ‘nuovo mondo’. Sentivo di essere guidato da qualcosa che era al di là di me stesso, e mi convinsi che la fede era assolutamente necessaria per proseguire la mia vita e il mio lavoro”. 

Da qui, il misticismo nell’arte di LaChapelle. E l’importanza dei soggetti sacri, rivisitati in modo del tutto personale, al fine di trovare delle risposte. Una ricerca spirituale, che si dipana tra temi di carattere religioso e riletture glamour apparentemente irriverenti. Basti pensare a Courtney Love: Pietà (2006), in cui l’icona pop reinterpreta la sacra rappresentazione. O alla serie Jesus is my Homeboy (2003), in cui Cristo è rappresentato tra i sobborghi americani. In mezzo agli ultimi dei tempi moderni, vestiti con felpe hip-hop, coperti di piercing e tatuaggi. Gli emarginati della società contemporanea, provenienti da contesti multietnici, che il Cristo di LaChapelle non giudica e non allontana. Ma accoglie amorevolmente nella sua cerchia.

Nella foto, in alto: David LaChapelle, Jesus is my homeboy. Last supper (2003)

Una riflessione strettamente connessa alla domanda sul destino dell’umanità riguarda il consumismo e le ossessioni della nostra cultura. Nelle opere di LaChapelle si manifesta in tutta la sua potenza il contrasto tra la smania di possedere e consumare che divora la società occidentale contemporanea e il carattere effimero e transeunte delle cose. 

La catastrofe è imminente. Ce lo raccontano immagini iperrealiste come Death by Hamburger (2001) e All U Can Eat (2002), rappresentazioni del tracollo di un’umanità schiacciata da una brama smodata e incontenibile. O narrazioni come I Buy a Big Car for Shopping (2002), che simboleggia lo strapotere del consumismo e i suoi esiti funesti.

Nella foto, in alto: l’esposizione al Mudec di Deluge (2006) e Staircase to Paradise (2018)

Ma la redenzione non è impossibile. Lo racconta Deluge (2006), una serie di fotografie ispirate al Diluvio Universale di Michelangelo. Questa, la definizione dell’autore: “Il diluvio è una grande metafora della perdita di tutto ciò che è materiale, della salute, del corpo: è trovarsi sul letto di morte con un’ultima possibilità di illuminazione”.

La fiducia nel miracolo ci richiama al tema della salvezza, aspirazione dell’umanità che emerge in modo costante nelle opere di LaChapelle. Tuttavia, non si tratta di una speranza passiva, dell’inerte attesa di un intervento soprannaturale. La salvezza, per attuarsi, esige presa di coscienza. Spirito critico. Attivazione delle proprie risorse, che conducono a un cambiamento.  Ancora in merito a Deluge, l’artista afferma: “L’idea è che la vita stia sostanzialmente volgendo al termine, ma siamo qui ad aiutarci a vicenda in mezzo al caos. È il mio modo di cercare di mostrare la natura umana al suo meglio”. La chiave risiede, dunque, in ciò che ci rende più profondamente umani. Nella collaborazione e nell’aiuto reciproco, sintetizzati da una mano tesa a offrire salvezza. Mentre acque purificatrici travolgono i simboli del capitalismo e della ricchezza e ne dissolvono l’accumulo incessante.

Ma esiste anche un’altra via. L’essere umano non può prescindere da un rapporto autentico, e non usurante, con la natura, se vuole salvarsi. Come illustra la serie di New World (1986-2017), in cui domina la centralità della figura umana nella sua purezza, inserita armonicamente nella natura, finalmente scevra dagli orpelli della nostra cultura divoratrice. O come suggerisce Our Lady of the Flowers (2018), in cui una figura mariana dalla pelle d’ebano si staglia su uno scenario naturale e paradisiaco.

Nella foto, in alto: David LaChapelle, Our Lady of the Flowers (2018)

Infatti, è proprio nella natura redentrice che si consuma il miracolo auspicato. Una natura che inizia a rivendicare i suoi spazi. Basti pensare a Spree (2019-2020), che rappresenta una gigantesca nave da crociera incastrata tra i flutti di ghiaccio. Il mare ritrova ora tutta la sua potenza ancestrale. Blocca tra massi ghiacciati il simbolo di un turismo di massa che sfrutta impietosamente le risorse, inquina e deteriora l’ambiente. Un progetto che, significativamente, si conclude proprio in corrispondenza del lockdown, dando esito a diversi spunti di riflessione circa l’atteggiamento della società nei confronti dell’ambiente e del Pianeta.

Nella foto, in alto: David LaChapelle, Spree (2019-2020)

Interessante in questo senso è anche la reinterpretazione che LaChapelle offre del dipinto di Botticelli “Venere e Marte” in Rape of Africa (2009), impersonata da Naomi Campbell. A tal proposito, lo stesso autore afferma: “Volevo che Venere rappresentasse l’Africa, un continente le cui risorse naturali sono state – e continuano a essere – violentate e saccheggiate”.

Nella foto, in alto: David LaChapelle, Rape of Africa (2009)

Quella di LaChapelle è, dunque, una visione dell’arte composita, complessa, a tratti spiazzante. Permeata di suggestioni mistiche. Connotata da un’iconografia simbolica, ma al tempo stesso diretta. Talvolta volutamente patinata, sempre profonda. Un’arte, insomma, che assolve magnificamente al suo compito: comunicare. O meglio, “Raggiungere le persone”.

Luana Vizzini

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