La morte dello spirito, il buio che precipita sulle passioni, l’adombramento della curiosità intellettuale. Mostri che si celano nella confusione, ci stordiscono e minacciano oggi più che mai. Si annidano nell’ubriachezza dell’iperconnessione, nel vuoto rimbombo dell’autoreferenzialità. Governano la società attuale. Aspirano al nostro annientamento.
Come reagire, dunque? Come schermarsi da questi virus che la scienza non può debellare, da questi nemici che nessuna arma moderna può abbattere? Giuseppe Montesano ci fornisce la sua risposta in Tre modi per non morire, andato in scena al Piccolo di Milano dall’1 al 5 ottobre 2025, con la voce sapiente di Toni Servillo.
La prima via è mutuata da Baudelaire. In un mondo appiattito dalla Noia, voragine nera pronta a ingoiare e ingoiarci, la poesia e la bellezza salveranno l’umanità. Fiamma di luce in grado di preservare ciò che è umano, l’arte conserva il suo possente potere salvifico. Oggi come ieri. Nel vorticare delle frasi vuote, dei discorsi vani e proni su se stessi, propri della nostra società egoriferita, la bella parola ci mantiene ancorati all’essenza. Al senso. Alla vita.
Toni Servillo, nuda figura sul palco, nuda voce e potente, ci accompagna con tono incalzante tra le pieghe del testo. Colore puro sullo sfondo. Magnetismo assoluto.

Dante, la seconda via. Lo smarrimento è un tema più che attuale. Eppure, nel folto buio dell’incoscienza, due incontri ci riportano all’umano. Paolo e Francesca dapprima, anime delicate, che amano e hanno amato di un amore proibito. La loro storia è sussurrata, srotolata piano. Una passione distruttiva, irresistibile, sì, ma autentica. Impossibile prenderne le distanze. Tutti siamo Paolo, tutti Francesca, Dante compreso. E questo non possiamo ignorarlo.
Ulisse, poi, a sua volta, ci ricorda chi siamo. Creature volte alla conoscenza. Spinte da una brama profonda, inarrestabile, rovente. Ecco che qui la voce di Servillo si gonfia, si espande come l’onda che schianta la nave dell’eroe e dei suoi e la inghiotte.
Amore e spinta conoscitiva, portati alle estreme conseguenze, sono entrambi distruttivi. Ma salvifici al tempo stesso, perché fanno di noi ciò che siamo.

La terza via è rappresentata dalla sapienza dei Greci. Popolo di pensatori, dedito alla filosofia, ha sondato le profonde oscurità dell’animo umano. E non ha avuto timore di rappresentarle. Anzi, lo ha fatto attraverso lo strumento più potente: il teatro. Seduti in una cavea, i Greci erano davvero un popolo. Tutti prendevano parte, perché tutti ne avevano il dovere civile e morale. Essi ci insegnano che non il celare, ma il disvelare è salvezza. Dove il nostro stordimento mediatico nega le pulsioni più oscure, il loro sguardo rivolto all’abisso purifica.
È proprio qui che la voce di Servillo assume un’inflessione napoletana. Eco di una civiltà mediterranea, ma anche linguaggio degli affetti, dell’intimità, delle piccole cose che contano.
I Greci, Platone in particolare, ci ricordano anche che volgere lo sguardo alla realtà porta con sé delle conseguenze. Lo schiavo liberato dalla prigionia della caverna ed esposto alla luce, non sarà mai più lo stesso. Proverà a portare ai compagni quanto ha osservato nel mondo, quanto ha appreso, ma subirà il loro dileggio. I Greci, in altre parole, ci dicono che chi rifiuta la conoscenza mantiene le catene della schiavitù. E questo dobbiamo ricordare, anche oggi, se vogliamo davvero chiamarci liberi.
Luana Vizzini

