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Il peso della coerenza. Riflessi morali sul presente della Real Casa di Savoia

Nel cuore della memoria storica dell’Italia, la Real Casa di Savoia rappresenta non solo una pagina gloriosa del passato nazionale, ma anche un simbolo vivente di continuità, decoro e responsabilità morale. Ancorché non regnante, una Casa Reale resta infatti custode di valori superiori, incarnazione visibile di una dignità che trascende l’individuo per farsi istituzione. Ecco perché, oggi, dinanzi alla condotta pubblica del Principe Emanuele Filiberto, è lecito e doveroso porre una riflessione: non come pettegolezzo mondano, bensì come analisi simbolica e morale, rivolta a comprendere quanto l’identità della monarchia – anche nel suo stato latente – dipenda da comportamenti esemplari e coerenti. Il Principe, sposato civilmente e religiosamente con la Principessa Clotilde Courau, appare da tempo in compagnia di un’altra donna, senza che sia stata comunicata alcuna separazione ufficiale o dichiarazione formale di status. Questa ambiguità, per quanto forse umanamente comprensibile, assume un peso critico quando esibita sui media in chiave mondana, frivola, televisiva. Per un uomo comune sarebbe questione privata. Per un erede dinastico, è tema istituzionale.
Le proiezioni simboliche, come mostrano alcune analisi recenti, parlano chiaro. Se questa linea di comportamento dovesse proseguire senza rettifiche, chiarimenti o un ritorno a una narrazione regale coerente, il consenso interno al mondo monarchico tradizionalista potrebbe calare tra il 30% e il 50% nel giro di 12 mesi. E non si tratta solo di numeri. Si tratta di una mutazione percettiva profonda: il Principe da figura dinastica rischia di essere percepito come personaggio televisivo, svincolato da ogni investitura simbolica. Un declino lento ma netto, che mette in discussione la credibilità morale dell’intera Real Casa.

Nella foto, in alto: il Principe Emanuele Filiberto

I media premiano la spettacolarità, la cronaca rosa, la presenza costante sotto i riflettori. Ma la visibilità mediatica, se non accompagnata da sobrietà e compostezza, sottrae autorevolezza anziché accrescerla. La monarchia, per essere tale, deve saper parlare anche attraverso il silenzio, la misura, il sacrificio del privato sull’altare del simbolo pubblico.

In statistica simbolica:visibilità = − autorevolezza, se non accompagnata da decoro.
Il rischio più grande ne è solo il calo di popolarità. È la perdita di legittimità simbolica. Una monarchia moderna può ancora esercitare un ruolo morale e culturale solo se fondata sulla coerenza, la continuità familiare, l’alto esempio. Se viene meno questa coerenza, il legame con le élite, gli ordini cavallereschi, le associazioni culturali e religiose si affievolisce. L’intero impianto simbolico vacilla. Chi, fra i sostenitori più fedeli alla monarchia, accetterebbe un Principe che sembra rinnegare i valori di fedeltà, sobrietà e rispetto del sacramento matrimoniale?
Non è solo questione di immagine. È questione di futuro. Se Emanuele Filiberto desidera realmente trasmettere alla figlia Vittoria non solo un nome, ma un’eredità dinastica riconosciuta, ha oggi davanti a sé un bivio: o rientrare in una narrazione regale credibile, dignitosa, coerente; o accettare una progressiva mondanizzazione della sua figura, con tutto ciò che ne consegue in termini di perdita di legittimità. Il tempo delle ambiguità è scaduto. La storia, si sa, ha poca pazienza con chi dilapida il proprio capitale simbolico.
Chi ama la monarchia, chi crede nel valore della Tradizione e nel retaggio morale delle grandi famiglie storiche, non parla oggi con rancore o giudizio personale, ma con senso di responsabilità.

L’appello che sale da molti ambienti culturali, aristocratici e spirituali è chiaro: non si può essere al tempo stesso Principe e personaggio televisivo. Non si può invocare la Corona e inseguire i riflettori. Che il Principe scelga, dunque. Non per sé soltanto, ma per l’intera eredità che porta sulle spalle. Perché la Monarchia può anche non regnare, ma non può mai smettere di reggere, moralmente, il proprio destino. Ad maiora, non ad vanitates.

Carla Rossi

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