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Cicisbei, i Lacchè e gli Yes-Men d’ogni epoca

Nella foto in alto ecco i tipici Cicisbei e Lacchè del 1700

Tra ciprie d’altri tempi e profumi di servilismo contemporaneo, una riflessione ironica sulla più antica delle professioni non dichiarate: quella del compiacere. Dalle corti settecentesche ai salotti digitali, i cicisbei e i lacchè non sono mai davvero scomparsi. Hanno solo cambiato livrea, tono di voce e — ahimè — piattaforma. Ah, la società moderna — quel magnifico teatro dove tutti recitano e pochi comprendono la parte. Tra le sue figure più pittoresche, e forse più patetiche, spiccano i cicisbei-lacchè, quegli instancabili cortigiani del nulla, che si credono essenziali solo perché presenti e indispensabili solo perché deferenti. Li riconosci senza fatica: passo misurato, sorriso pronto, parola levigata come una posata d’argento — ma vuota come un bicchiere dimenticato dopo il brindisi. Si devoti dell’approvazione, i sacerdoti del consenso, i campioni dell’inchino strategico. “Come desiderate, Signore”, “Se è di Vostro gradimento, Signora” — frasi pronunciate con la gravità di un oracolo, ma con il contenuto d’una piuma sospinta dal vento. La loro esistenza è una sinfonia di “sì”, un minuetto del servilismo danzato tra inchini e riverenze; una pantomima del rispetto, priva di sostanza. Essi non servono: adulano. Non accompagnano: seguono. Non comprendono: ripetono. E quando, spinti da un’improvvisa febbre d’ambizione, tentano di distinguersi, riescono solo a confermare la loro irrilevanza — come candele che, cercando di brillare di più, finiscono per spegnersi da sole. Si presentano come “gentiluomini di società”, ma non possiedono né il garbo del vero gentiluomo, né la libertà interiore che lo distingue.
Confondono la cortesia con la servitù, l’eleganza con la finzione, la lealtà con la paura di dispiacere.
E mentre credono di servire la nobiltà, ne sono in verità l’antitesi vivente: poiché la nobiltà, quella autentica, non si misura dalla quantità d’inchini ricevuti, ma dal coraggio di restare diritti quando tutti si piegano. Ah, i nostri Yes-Men! Sempre pronti ad annuire, sempre pronti a compiacere — persino quando non sanno di che cosa si stia parlando. Hanno fatto del “come volete” la loro religione, del “ben detto” la loro preghiera e del “sempre a disposizione” il loro epitaffio morale. Eppure, in loro alberga una certa tragicomica poesia: l’eterna illusione di essere necessari, mentre non sono che decorazioni animate, strumenti di scena nel teatro dell’altrui vanità. E non mancano, naturalmente, coloro che, nel loro zelo d’apparire “parte del mondo elegante”, si rivestono di profumi troppo dolci e sorrisi troppo falsi, convinti che la grazia possa essere acquistata come un guanto. Ma, miei cari, la vera eleganza — come la vera nobiltà — non si indossa: si è. Che malinconia, vedere come lo spirito del lacchè abbia resistito al passare dei secoli! Un tempo portavano livree; oggi indossano giacche firmate. Ma sotto la seta resta la stessa stoffa: quella del servilismo travestito da distinzione. E così, quando li vedo affaccendarsi con aria d’importanza, intenti a compiacere e mormorare approvazioni a chiunque conti più di loro, non posso che sorridere con un po’ di compassione. Perché gli Yes-Men — questi cicisbei del XXI secolo — non fanno che sfigurare la nobiltà autentica, rendendola caricatura di sé stessa. La vera aristocrazia non teme di dissentire; la vera signorilità non teme di tacere. È l’animo nobile, non il tono di voce, che distingue il gentiluomo dall’adulatore. E dunque, leviamo il calice — non in loro onore, ma alla loro memoria.
Perché nulla invecchia più in fretta di un sorriso servile, e nessuna livrea, per quanto lucida, potrà mai nascondere il grigiore dell’anima.

Con divertita indulgenza,
Carla Rossi

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