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“Tu sei Erika venuta per capire” (Una cicciona nell’Oceano Indiano). Prima puntata

Per chi non lo sapesse, la nostra Erika si rimette in gioco spesso e volentieri prestando il suo viso e la sua esuberanza a spot pubblicitari, figurazioni varie in film e serie televisive e apparizioni in svariate emittenti locali e nazionali. Stavolta è stata chiamata da Le Iene per un’inchiesta sul turismo sessuale in Kenya. In veste di “babbiona in cerca di fidanzato” si è infiltrata tra i Beach Boys kenioti per capire qualcosa di più su come funzioni la faccenda: come fa una donna, magari vecchia, brutta e cicciona a trovare un fidanzato ventenne, e magari sposarselo? Ma Erika è curiosa due volte: come giornalista e come donna! Quindi è andata oltre, cercando di capire qualcosa anche su come funzioni l’Africa.

Nel periodo precedente al viaggio ha cercato di imparare almeno qualche frase e qualche rudimento della lingua Swahili. Ha ingoiato pillole e pillole di profilassi antimalarica ma è tornata comunque con un’infezione all’apparato otorinolaringeo. Ha trascorso otto giorni senza telefono, radio, televisione né internet e ne è stata felice. Ha avuto un trattamento privilegiato da parte dei Boys, è stata accompagnata da alcuni di loro nei vicoli più desolati dei bassifondi di Malindi e in territorio selvaggio a vedere gli ippopotami e non si è mai sentita più al sicuro. Che dite, ce lo facciamo raccontare? Forza, Erika, dicci tutto!

Lunedì 27 agosto 2018, in volo su Roma.

Ed eccoci qui in attesa di atterrare in quel di Roma. È buio, non sono vicino al finestrino e quindi non si vede niente. Ma partiamo dal principio, anzi, dall’antefatto. Ho già lavorato con Le Iene, e per questo sono stata direttamente interpellata da loro per recitare stavolta la parte della “babbiona d’assalto” in questo loro reportage sul turismo sessuale femminile in Kenya. Incredula fino all’ultimo, lì ad autoconvincermi che non fosse possibile che un viaggio gratis in Africa non possa capitare proprio a me, che ho sognato quella terra da sempre. Dev’essere un loro scherzo. Quante volte hanno iniziato un servizio dicendo: “abbiamo fatto credere a Tizio che…” E invece è vero. È capitato a me davvero. Fai il passaporto di corsa, compra una valigia bella grande, riempila e aspetta col batticuore il giorno della partenza. Come al solito, quando si lavora per la televisione, non si sa nulla di preciso, non ti dicono mai niente. So solo che si va in Kenya. A scatola chiusa. Poi si vedrà.

Non sono obbligatorie vaccinazioni di sorta, è solamente consigliata la profilassi antimalaria e decido di farla, non si sa mai. Non ho più vent’anni, meglio prevenire. Mi dicono che laggiù tutti parlano non solo l’inglese ma anche l’italiano, dato che la maggior parte dei turisti che arrivano vengono da qui, dall’Italia, e per il Kenya il turismo è lavoro e fonte di guadagno. Ma voglio comunque imparare qualcosa di swahili: non vado lì per fare la turista, vado lì per capire, per imparare. Conservo ricordi orribili del turismo nella bellissima ex Jugoslavia, dove milanesi boriosi e saccenti cantavano “Oh, mia bela Madunina” nei bar di Spalato vantando le bellezze nostrane. Ok, e allora perché non sono andati a Rimini a fare le vacanze, invece di scassare i marroni dall’altro lato dell’Adriatico? Odio quel tipo di persone. Come fare? Mi arrangio con Google translator digitando tutto quello che mi viene in mente di tradurre, tutto quello di cui potrei aver bisogno o che mi possa tornare utile. Fabbrico un piccolissimo dizionario italiano-swahili, venti e rotte pagine di quaderno con parole e frasi in ambo le lingue, poi cerco di mandare tutto a memoria ripetendo, ripetendo e ripetendo. Attacco bigliettini sugli oggetti di casa con su scritto il nome in swahili. Sarà abbastanza? Beh, ormai è arrivato il giorno della partenza, e quel che è fatto è fatto.

Si esce di casa alle 15.30, io e mia figlia in veste di aiutante portaborse. Una fuga da ladri per non far sapere ai vicini di casa che parto. Questo è un quartiere di quelli in cui se lasci la casa per qualche giorno, al ritorno puoi trovarla vuota o piena. Vuota se entrano ladri o zingari e si portano via anche la mobilia, piena se qualche senza-dimora entra sfondando la porta, prende possesso dei locali e chiama gli amici a vivere con lui.

Come farò a comunicare con lei, una volta laggiù? Avranno la connessione ad internet, nel resort? Ma sì, dai, è un resort, ci sarà di sicuro!

La fuga riesce, non ci vede nessuno! Autobus, metrò rossa, metrò verde, navetta per Malpensa, sonnellino di prassi durante l’ora necessaria ad arrivare. Sono le 18, Giorgio de Le Iene arriverà tra un’ora. Nel frattempo mi contatta “babbiona due”, Eulalia, l’altra prescelta per questa avventura. “Sono qui in aeroporto, tu dove sei?” dice una voce allegra al telefono. “Sono al check-in”, faccio io. “Come ti riconosco?” domando, dato che non ci conosciamo. “Sembro Topo Gigio”. Iniziamo bene!

È il mio esatto contrario, ci hanno scelto bene. Più diverse di così non potremmo essere. Io, la quintessenza dello spirito spartano, lei, l’apologia del fashion kitsch più esasperato. Dopo baci e abbracci di rito, Eulalia si lagna di aver dovuto ridurre drasticamente il bagaglio. Come potrà sopravvivere senza le borse di Gucci, le scarpe tacco dodici e gli abiti da sera? Decidiamo di collaborare piuttosto che farci la guerra, sarà una serie di sfottò e di vicendevoli punzecchiature come facevano Vianello e la Mondaini. Potrebbe essere divertente.

Gli accordi sono che andiamo lì praticamente gratis, solo in cambio di vitto e alloggio e il rimborso delle eventuali spese sostenute. Solo al ritorno si metterà di mezzo l’agenzia di casting di Antonio Ricci per cui lavoriamo entrambe, perché ci venga riconosciuto un compenso adeguato, visto che lì non è una zona “facile”: sono tutti sieropositivi e non è raro incontrare bande armate o terroristi.

Giorgio non arriva. Gli invio un messaggio e risponde che “il taxi ha bucato”, correlando la frase con le fotografie di rito. Arriva con un quarto d’ora di ritardo, ma non è grave, l’aereo parte alle 21.15. Con lui c’è Mauro, che si occuperà delle riprese e della parte tecnica. Intanto inizia a filmarci mentre entriamo nella parte delle “Babbione d’Assalto” affamate di piselli scuri. Il nostro motto sarà: “If you’ll try black, you’ll never come back” – “se lo provi nero non torni indietro”. Eulalia vorrebbe regalarmi un paio di occhiali da sole che ha fatto fare apposta per noi quattro. Li trovo terribili. Pacchiani, colorati, sgargianti e dalla montatura spessa. No, grazie, non è il mio genere anche se dice che costano 400 euro e li ha fatti fare apposta, personalizzati. Secondo me non è vero che abbia speso milleduecento euro per regalarci degli occhiali uguali ai suoi. Dato che ai ragazzi comunque piacciono, facciamo uno scambio e io mi prendo il paio che indossava Mauro scartati a favore di quelli nuovi. I suoi erano più sobri, modello Blues Brother.

Nella foto, in alto: l'interno del bellissimo boeing 777
Nella foto, in alto: l’interno del bellissimo boeing 777

Ci avviamo al gate d’imbarco perdendo tempo a guardarci intorno e facendo uno spuntino prima di salire a bordo, poi chiamano il volo e si parte. Un boeing 777 della Ethiopian Airlines, adatto ai voli intercontinentali. Ci accolgono delle belle signorine somale o eritree a giudicare dall’aspetto tipico dei popoli del Corno d’Africa. Non ero mai salita su un aereo così grande! Ogni fila conta tre gruppi di tre sedili ciascuno: due ai lati, accanto ai finestrini, il terzo gruppo in mezzo, a creare due piccoli corridoi.

Nella foto, in alto: una delle belle hostess etiopi che ci accolgono
Nella foto, in alto: una delle belle hostess etiopi che ci accolgono

Più o meno quattrocento posti a sedere, tre bagni, finestrini ampi, comodi sedili reclinabili, piccolo schermo interattivo inserito nello schienale sopra al tavolino richiudibile. Il tavolino è il solito. Lo schermo, anche se per me è una novità, ha un uso abbastanza intuitivo e riesco ad usarlo. Niente di che, comunque: solo la possibilità di vedere qualche film, ascoltare musica o controllare su una mappa virtuale a che punto si è con il volo. I film sono piuttosto vecchi e scontati. Vedo i miei vicini di posto rimbalzare dall’uno all’altro, evidentemente li trovano vecchi e annoiano anche loro. Edward Mani di Forbice acconcia siepi e signore, The Rock si getta da un dirupo con i suoi compagni, eternamente inseguito dai cattivi. Finiscono nel fiume sottostante e nella scena successiva sono tutti asciutti, coi capelli in piega e gli abiti stirati. Boh? Mai capite, ‘ste cose, nei film. Vabbè, vado in bagno. I bagni sono una figata: pulitissimi, pieni di ganci e mensoline fisse o a scomparsa in cui posare tutti gli oggetti che ti servono, luci e specchi tutto attorno, prese di corrente.

Nella foto, in alto: i passeggeri appisolati sembrano malati terminali attaccati alle macchine
Nella foto, in alto: i passeggeri appisolati sembrano malati terminali attaccati alle macchine

Bene, si parte. Decollo dolce e atterraggio a Roma Fiumicino fermi un’oretta ad imbarcare altri passeggeri, all’alba atterreremo ad Addis Abeba e prenderemo un altro aereo. Alla partenza da Roma siamo quasi tutti appisolati, ormai è mezzanotte e mezza. Alla una circa veniamo svegliati per la “cena”: Da un carrello spuntano lasagne calde (passabili, dai), un formaggino e relativa mini pagnottella diametro cinque centimetri in cui infilarlo. Una vaschettina con patate lesse a tocchetti, piselli e un pomodorino secco. C’è anche il dolce, una crostatina. Puoi chiedere da bere con ampia scelta e a fine pasto passano con the o caffè. E chi se lo aspettava, a quest’ora? Quello che fa impressione è vedere un sacco di passeggeri mezzo addormentati collegati a fili e cavetti che sembra il reparto terminali agli Ospedali Riuniti. Per chi ha freddo sotto il getto dell’aria condizionata, c’è a disposizione una coperta sottile ma calda e morbida. Alle cinque del mattino, nuova sveglia: due ciambelline e bevande a scelta. Una via di mezzo tra un pranzo di nozze in cui ogni tanto arrivano con una nuova portata e un ospedale dove ti svegliano alle cinque col termometro.  Sta sorgendo il sole, mi alzo e voglio guardare che si vede di sotto, perché dal mio posto non vedo niente. Viste da sotto, intendo con i piedi per terra, le nuvole sono piatte. Viste da sopra, dall’aereo, sono bellissime: tutto un sistema di corrugazioni, soffici catene montuose, vallate, vortici… ma non ho ancora visto un pezzetto d’Africa! Dovrò avere pazienza. Vedere l’Africa era stato da sempre uno dei miei sogni prioritari, una di quelle cose da fare assolutamente prima di morire.

Nella foto, in alto: brutto tempo ad Addis Abeba
Nella foto, in alto: brutto tempo ad Addis Abeba

Ad Addis Abeba piove e fa piuttosto freddino: quindici gradi. Sbarcati dal primo apparecchio ci sediamo in sala d’attesa aspettando il prossimo volo che ci porterà a Mombasa. Wow, sono accanto al finestrino. Non credo che si vedrà molto: come avevo già notato, tutto il Nordafrica è coperto da una fitta coltre di nubi… e invece si vede! Sorpresa! Appena ci allontaniamo da Mombasa ci lasciamo la perturbazione alle spalle. Ecco che appare l’Africa, sotto di noi! E quant’è verde! Un verde diverso da quello italiano e diverso anche dal verde inglese. Verde come se il verde non avesse altro da fare che essere verde.

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Nella foto, in alto: l’aereo con cui sbarchiamo a Mombasa

Anche questa volta, sull’aereo si mangia e si beve a tutte le ore. Alle nove arriva il pranzo: riso con curry e verdure, dolci e dolcetti, the, caffè e tanto altro. E per fortuna, perché dopo, una volta atterrati, c’è stato da aspettare parecchio per vedere altro cibo! Arriviamo a Mombasa, e qui sì che fa il caldo che ci si aspettava: bello, morbido e avvolgente come un grande abbraccio. Sapevate che nell’intera area al di fuori dell’aeroporto, intendo dire proprio all’aperto, è vietato fumare? Un po’ come mettere un multavelox alla fine di un lungo rettilineo a tre corsie: a chi volete non venga in mente di accendersi una sigaretta, dopo dieci ore di volo? Chissà quante multe fanno! Dogana, documenti, e fuori ci aspetta un tizio che ci porterà al resort. Praticamente più di tre ore di auto, dalle 12 alle 15.30. Imparo più in queste ore che in vent’anni di letture sull’Africa. Quello che si vede dal finestrino è un altro pianeta. Diciamo che all’incirca ogni tre chilometri c’è un villaggio, ma le case in muratura sono rarissime.

Nella foto, in alto: le tipiche capanne africane
Nella foto, in alto: le tipiche capanne africane

Per villaggio intendo proprio le capanne che si vedono nei libri di scuola, costruite coi rami intrecciati, lo sterco di vacca impastato col fango per fare i muri e il tetto di foglie. Ma ogni capanna è un negozio, un’officina, un’attività commerciale, un ospedale, una scuola… E poi, colori, colori dappertutto! Negli abiti delle donne, nelle insegne di legno dipinto poste su ogni attività, nei fiori che qui sono dovunque in quantità inimmaginabili. È un’esplosione di vitalità contrapposto al grigiore europeo. Ogni tanto ci sono dei lavori di ripristino del manto stradale o dei posti di blocco con le strisce chiodate a terra e i tizi con i mitra a chiederti i passaporti. la mia co-babbiona non fa che lagnarsi e trovare brutture. Io vedo solo valori e bellezza. Perché tutto sommato, per le strade di Roma ci sono molte più buche di qua, e la Salerno Reggio Calabria è ancora da finire. Qui la strada non va da nessuna parte ma c’è, ed è anche ben tenuta e in buono stato. Ogni villaggio ha la sua scuola, il suo centro medico… poi magari non avranno nemmeno bende e cerotti, ma c’è! Non come in meridione da noi, dove si costruiscono ospedali di dieci piani che restano inutilizzati per mancanza di medici e macchinari. Da noi la gente muore per strada perché l’ospedale funzionante più vicino è a trecento chilometri, e allora che differenza fa? Qui, almeno, la capannina ospedale è a due passi, qualcuno ti guarda, ti ascolta, cerca di fare il possibile. Da noi aspetti sei mesi per una visita, paghi, sbagliano diagnosi, non trovano nulla, le medicine costano ma non andavano bene. Qui magari c’è lo stregone, ma c’è. Subito. Gli oggetti non ci sono ma le persone, sì. Lo paghi con quello che hai, con quello che puoi, e quello cerca di fare tutto quello che gli passa per la testa sperando di farti stare meglio. Come diceva Madre Teresa riguardo all’India: “Qui nessuno muore solo”.

Nella foto, in alto: tipico edificio Safaricom, dappertutto in Africa
Nella foto, in alto: tipico edificio Safaricom, dappertutto in Africa

Mi sembra ci sia tutto quello che serve: in queste ore ho visto case per anziani, scuole primarie e secondarie, università, medical centers, orfanotrofi, negozi di cellulari ed elettronica, parrucchieri. Tutti nelle loro brave capannine di fango, sterco e rami, però magari con l’antenna satellitare sopra. La Safaricom, versione africana della Telecom, coi suoi edifici verdi in muratura è dappertutto, una costante in ogni villaggio. La macchina andava molto piano e si potevano notare un sacco di dettagli e di particolari. Si sentivano suoni, voci. Ho visto libertà, fantasia, creatività, spirito imprenditoriale, dignità. Ogni famiglia ha le sue vacche o le sue capre, la sua attività, e lavorano tutti col sorriso, anche i bambini. Li ho visti lavare i panni nelle pozzanghere e stendere sul prato. Adesso ho capito uno dei motivi per cui benedicono la pioggia: le pozzanghere sono la loro lavatrice! Li ho visti portare l’acqua in equilibrio sulla testa in bidoni di plastica riciclati e zozzissimi che se ci metti la benzina il motore grippa. Ho visto i loro mercatini in cui comprano e vendono qualsiasi cosa possa essere comprata e venduta. In queste tre ore di panoramica, come fossero piccolissimi spezzoni di vita quotidiana, ho afferrato per la coda lo spirito vitale dell’Africa, la sua essenza.

Nella foto, in alto: lussureggianti bouganville ovunque, un'esplosione di fiori colorati
Nella foto, in alto: lussureggianti bouganville ovunque, un’esplosione di fiori colorati

La vegetazione non c’entra nulla con quella europea. Ho riconosciuto pochissime piante che oltretutto da noi sono solo ornamentali (e costano tanto), mentre qui crescono allo stato selvatico a bordo strada, come i ficus o le bouganville. Baobab dovunque, eucalipti, e le bouganville sono di tutti i colori, esuberanti e lussureggianti. Fiori dovunque, anche se in questo emisfero è inverno. Ho mal di testa, con tutto quello che ho visto, perché ho davvero visto di tutto. Anche un albero con su scritto “not for sale” (non in vendita), e chissà chi cavolo se lo voleva comprare, per doverci mettere su un cartello.

Nella foto, in alto: eccoci al resort Mariposa
Nella foto, in alto: eccoci al resort Mariposa

E infine arriviamo al resort. Piccoli appartamentini attorno ad una piscina ad un passo dall’Oceano Indiano. Della struttura fanno parte un ristorante con una seconda piscina e un bar a fronte spiaggia. Date le mille raccomandazioni, noi “babbione” vogliamo assolutamente andare a comprare dell’acqua in bottiglia per ogni necessità. Dopo una bella chiacchierata con Emilio, gestore del resort, che ci spiega molte cose. Ovviamente vorrei chiamare mia figlia e mi spiega come agganciare il mio cellulare alla connessione, ci provo, ma non succede niente. ci prova lui, e non succede niente. Boh?, ci proveremo più tardi con calma, per ora mi accontento di fare inviare un semplice messaggino dal cell di Giorgio, che fortunatamente è molto gentile e me lo permette: “Arrivata, sto bene, stai tranquilla”. Ci facciamo accompagnare da Emilio al market più vicino.

Nella foto, in alto: il market "Seven to Seven"
Nella foto, in alto: il market “Seven to Seven”

Vicino per modo di dire, dato che è lontano tre chilometri circa, e ci si arriva dopo un quarto d’ora di strada in tuk-tuk (l’Ape Car Piaggio che qua si usa come taxi). Si chiama “Seven to seven”, e ovviamente è aperto sette giorni su sette. È un negozietto modesto con dentro quattro cose messe in croce, quasi tutto importato dall’Italia, prodotti che conosciamo benissimo. Doccia fredda: Tre bocce d’acqua, tre litri di latte UHT, una pagnotta a fette, un pacchetto di pan carré, sei lattine di birra, due barrette di cioccolata e due confezioni di formaggio… fanno quasi quaranta euro! Certo, ci si rimane male. Poi però pensi a tutto quello che abbiamo portato via a questa gente in cambio di perline colorate, e pensi: “Fanno bene! è il loro turno, adesso”. Non hanno niente, se non prodotti importati. Pochissima frutta, e trovarla matura è solo una botta di fortuna. Pochissima verdura mezza appassita. Solo formaggi esteri.

Nella foto, in alto: i pazzeschi prezzi per una spesa minima
Nella foto, in alto: i pazzeschi prezzi per una spesa minima

Solo latte importato uht. La birra Tusker è prodotta in luogo e dicono sia buona. E fuori dal supermercato, che c’è? Una ressa di persone che ti chiedono qualsiasi cosa: spiccioli, un chilo di riso, del latte per i bambini, qualcosa da mangiare e così via. Oltre a quelli che chiedono, ci sono anche quelli che offrono: dalle carte telefoniche Safaricom alle collanine, ciabatte, borse e pareo, organizzano gite e spostamenti, poi ci sono i driver di tuk tuk, le moto, ti chiedono se sai già dove andare e via dicendo. Le vie, tranne quelle principali, non hanno né nome né numeri civici e anche quelle principali hanno un nome solo se lo sai per fatti tuoi, perché non c’è nessun cartello. Chissà come fanno a consegnare la posta e le merci? Se il postino non conosce personalmente il destinatario, non lo troverà mai. Lungo la strada il traffico è piuttosto caotico, almeno per noi che siamo abituati a tenere la destra, qui si viaggia sulla sinistra e ci sembra tutto strano. I tuk tuk portano fino a quattro persone più il guidatore, che sembra si debbano sfondare da un momento all’altro, e anche le moto hanno li loro bel daffare con due o finanche tre passeggeri in sella, più il conducente. Quasi nessuno ha la patente e ancora meno hanno l’assicurazione. Si va e basta, e se non ti piace vattene a piedi. Finalmente torniamo al resort e, perdonate la battutaccia, ci sembra Pasqua: “Cristo, è RESORT”.

Ognuno di noi ha un appartamentino a disposizione. Sala con cucina, bagno con doccia, camera. Grandi armadi e qualche oggetto a disposizione: pentole, piatti, posate, bicchieri e altro. Le zanzariere sono inchiodate alle finestre, non si possono escludere, e anche il letto è fatto a baldacchino con la zanzariera tutto attorno. Ogni appartamento ha un patio esterno con divano, poltrone, luci e grandi teli bianchi che si possono chiudere tra loro per il massimo della privacy. Disfo la valigia.

Nella foto, in alto: il grande armadio in camera
Nella foto, in alto: il grande armadio in camera
Nella foto, in alto: il letto a baldacchino con la zanzariera
Nella foto, in alto: il letto a baldacchino con la zanzariera
Nella foto, in alto: il bagno
Nella foto, in alto: il bagno
Nella foto, in alto: la cucin a vista
Nella foto, in alto: la cucina a vista

Pane e formaggio, latte, doccia e a nanna di corsa. Per la doccia, il signor Emilio ci ha spiegato che ci sono a disposizione ben quindici litri di acqua calda, ed è già tanto che ci siano perché è un resort di lusso. In altri posti c’è molto meno, o non c’è niente del tutto. Domattina riunione alle nove e si parte a caccia di Beach Boys.

Fine della prima puntata. Alcuni nomi sono stati cambiati per ragioni di privacy.  A breve la seconda puntata, stay tuned!

                                                                                                                                                                                         Erika Corvo

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